In questo articolo facciamo tesoro delle esperienze degli ultimi anni e ci siamo concentrati sulla progettazione e realizzazione degli impianti fotovoltaici.
Perché, dopo anni di “sbornia”da installazione, incomincia ad essere importante, nel conto degli interventi e dei clienti, la voce riguardante le manutenzioni.
Questo dato di fatto ci permette, quindi, di guardare agli impianti con un diverso punto di vista; se vogliamo inedito, che ribalta tutto e sconvolge le granitiche certezze di tutto quello fatto finora, oseremmo dire da tutti (o quasi).
La progettazione e la sua evoluzione dal prodotto all’impianto
Prima però, facciamo un passo indietro, anni ’90 del secolo scorso, perché è da quel periodo circa che si fa strada, nelle menti dei progettisti in generale, un concetto importante. Dal NORD Europa, calava il concetto di Ciclo di Vita del prodotto. L’argomento del momento era il contenimento energetico durante la vita utile, e lo scettro della novità di questo pensiero andava allo smaltimento fino ad allora considerato negletto e talmente poco importante da essere dimenticato. Il concetto di design for disassembling era, appunto, la frontiera della progettazione. Coeve o quasi del periodo (in realtà di qualche anno prima, ma riprese da questa “nuova ondata”) i concetti di economia circolare, rifiuti zero, impatto e zaino ecologico leggeri.
Nell’analisi del ciclo di vita (progettazione-produzione-vendita-USO-dismissione/smaltimento), c’era una parte, la più duratura, che riguardava l’utilizzo del prodotto stesso, il suo uso e, leggermente, in modo molto tangenziale si accennava alla manutenzione.
Questo concetto, questa visione per così dire ristretta, può essere acccettata per un prodotto, un oggetto più o meno semplice. Certamente, per un impianto, non può essere messa in disparte. La natura stessa di un impianto determina la sua necessità di manutenzione (funzionamento continuativo nel tempo per lunghi periodi, utilizzo di liquidi/combustibili, temperature, ecc. ben fuori dall’ordinario, ecc. impongono cautele al mantenimento dello stato di integrità dell’impianto stesso).
Tutti gli impianti hanno cicli e prassi manutentive, e, spesso, hanno poco o zero a che vedere con la progettazione. Sempre per stare in ambito domestico (gli impianti da raffineria o da centrali li lasciamo fuori dal discorso per ovvie ragioni di specificità ed unicità), facciamo l’esempio chiaro a tutti della pulizia dei filtri dei condizionatori e, l’obbligo del controllo della caldaia.
Al di là di casi isolati, magari paradossali, l’accesso e la manutenzione dei suddetti è facile, veloce, e non viene determinata, se non in minima parte, dalla progettazione dell’impianto.
Sugli impianti fotovoltaici, invece, la cosa è ben diversa. Specialmente lato collettori e, cioè, lato tetto; esterno dell’abitazione.
L’importanza della progettazione nella manutenzione
Focalizziamo il nostro discorso con alcuni esempi.
Premettendo, però un concetto importante: nel caso del fotovoltaico esistono sempre almeno due tipi di progettazione. La prima è quella energetico elettrica (scelta dei componenti, dimensionamento dei conduttori e loro posizionamento), e la seconda è quella meccanica (come e con cosa si ancora l’impianto al tetto). In realtà dovrebbe anche farsi strada la prassi di dare importanza ad un terzo tipo di progettazione e cioè quella della manutenzione. Con questa premessa sarà più chiaro parlare dell’importanza della progettazione integrata di tutti gli aspetti.
Il primo esempio è la necessità, variabile da impianto ad impianto, della Pulizia dei collettori.
La progettazione strettamente intesa dell’impianto (sempre che sia stata fatta), non tocca questo aspetto, dal momento che i suoi obiettivi sono:
- Assicurare una tenuta meccanica nel tempo dei collettori (staffature e struttura)
- Produzione energetica duratura ed efficiente (interter e quadristica).
In questo caso, tuttavia, sarebbe sempre opportuno farsi alcune domande circa l’accesso al tetto in sicurezza (aggiungeremmo anche “in comodità” (perché spesso, questi concetti vanno a braccetto).
- Va da sé che, se i costi per arrivare a tetto, anche solo per le operazioni necessarie al prolungamento della vita dell’impianto, sono ingenti, solo impianti di una certa potenza offrono la garanzia di “ripagare” l’intervento. Gli impianti più piccoli sono esposti al dilemma del “fare o non fare” e quindi, psicologicamente difficili da gestire.
- Qui la logica del “pensare al domani”, si direbbe quasi “assicurativa”, può essere valevole per la “riuscita economica” delle operazioni future. Installare accessi al tetto in sicurezza, mentre si installa è una cosa, farlo ex post vuol dire avere costi aggiuntivi.
Fin qui nulla di realmente “nuovo”.
C’è un altro ambito, però, che è strettamente progettuale ed è una variabile in trade off, come direbbero i tecnici, quindi in contrasto, diremmo quasi inversamente proporzionale, con altre.
Stiamo parlando della superficie utile a tetto.
In ottica di progettazione la superficie a disposizione ha un impatto netto sulla producibilità dell’impianto. Maggiore una maggiore, di conseguenza l’altra.
Questo determina, da sempre, la concezione degli impianti in modalità “monoblocco”; cioè con tutti i pannelli posati “a distanza di morsetto”.
Questa idea è così radicata, che persino le richieste paesaggistiche indicano una tendenza “all’impaccamento” dei pannelli fotovoltaici a tetto.
Adesso, però, facciamo un passo avanti: qualche anno dopo, si deve intervenire sull’impianto.
Come prassi, il controllo dei morsetti è una pratica fortemente consigliata specie su tetti inclinati, ma potrebbero esserci cause differenti (rottura di un pannello, verifica delle connessioni, pulizia da animali, ecc.).
Risulta subito evidente che, la scelta di impaccare il campo fotovoltaico rende subito estremamente difficoltoso intervenire oltre dei moduli perimetrali. Insomma: quelli al centro sono “di difficile accesso”.
Per “rendere accessibile” i pannelli centrali, il campo fotovoltaico dovrebbe essere “aperto”, con gruppi di moduli distanziati in modo da permettere il passaggio di un operaio non sui moduli (operazione sempre rischiosa), ma tra i moduli.
Questa possibilità, però, è offerta sempre e solo dalla progettazione del campo fotovoltaico stesso. Progettazione che, quindi ha a che fare con la superficie del tetto a disposizione.
Superficie che, spesso è piccola rispetto alla potenza da installare, per cui l’impaccamento è l’unica scelta possibile. Ecco dove sta il contrasto tra variabili.
Certo, i pannelli più efficienti danno un contributo risolutivo in tal senso, a volte il tetto è sovrabbondante, ma, spesso, vale l’adagio: piccolo tetto per grandi potenze, per cui, il distanziamento, semplicemente, non è una opzione percorribile.
Da qui il dilemma che dovrebbe essere chiaro anche per il futuro proprietario: tutta la potenza ed impianto compatto, oppure meno potenza, ma impianto più accessibile?
Per i puristi dell’estetica, concludiamo con questa riflessione:
Capita, a volte, che sia la superficie stessa ad offrire spazi di lavoro ed opportunità in tal senso. Ed è il caso di quando la progettazione si unisce ad un rispetto maniacale per i dettami dei manuali di istruzione dei moduli fotovoltaici.
Il caso in evidenza è eloquente. La greca della copertura sottostante ha un “passo”, la zona di ammorsamento dei moduli un altro.
Rispettare quest’ultima è possibile solo con un distanziamento dei moduli che, oltre ad essere anticonvenzionale, è anche un ottimo esempio di “campo aperto” ed “accessibile”. Qualsiasi sia la necessità manutentiva futura.
Parafrasando: “Give space a chance!”
OTT
2018